lunedì 25 marzo 2013

Stupido è chi non usa Google



TECNOLOGIA
16/02/2011

Stupido è chi non usa Google

da LaStampa.it

Derrick de Kerckhove parla del suo ultimo ebook «La mente accresciuta»
PATRICK HESTER *
Derrick de Kerckhove è professore del dipartimento di lingua francese all’Università di Toronto, Canada, dove è stato direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia dal 1984 al 2008. Già insignito della Papamarkou Chair in Technology and Education presso la Library of Congress, attualmente insegna alla facoltà di Sociologia dell’università Federico II di Napoli e tiene lezioni all’Interdisciplinary Internet Institute (IN3) dell’Università Oberta di Catalunya a Barcellona.

È autore di Brainframes: mente, tecnologia, mercato, La pelle della cultura: un'indagine sulla nuova realtà elettronica, Connected Intelligence e The Architecture of Intelligence. Ha redatto e curato numerosi documenti, saggi e raccolte, tra cui McLuhan for Managers e The Alphabet and the Brain. Oggi Derrick ci parla di La mente accresciuta, ebook pubblicato da 40k.

Che cosa significa “mente accresciuta”, che definizione ne dà?
La mente accresciuta è l'ambiente cognitivo, attivo sia a livello personale che collettivo, che le tecnologie intessono attorno a noi e dentro di noi, attraverso Internet in particolare e l'elettricità in generale. Funziona sia come memoria estesa sia come intelligenza di elaborazione per ogni individuo che usa tecnologie elettroniche, dal telegrafo, al “cloud computing”, a Twitter. Unisce le persone invece di dividerle, come è successo con l'alfabeto, e tiene conto di qualsiasi quantità di voci singole all'interno di uno spazio di informazione fluido, definibile in base agli individui e alla comunità che lo abitano, seguendo i bisogni collettivi. Può assumere svariate forme e mettere in comune risorse individuali in servizi come Wikipedia, o esternalizzare e oggettivare il nostro processo di immaginazione in contesti di finzione in grado di offrire all'utente esperienze in presa diretta, come Second Life.

Nel saggio si parla di generazione “always on”, “sempre connessa”, e di persone nate con un telefono cellulare in mano. Che significato ha tutto ciò?
La generazione “always on” è caratterizzata dall'essere costantemente raggiungibile grazie al proprio dispositivo mobile. Vive in una condizione di fiducia e disponibilità, in una sorta di dialogo incessante con il mondo. È anche una generazione iperstimolata, composta da drogati di informazione e connessione che hanno bisogno di far circolare e ricircolare informazioni dalla mente biologica a quella delle reti. Costruisce la propria identità online attraverso i social media e vive dell'eccellente reputazione che riesce a procurarsi curando il proprio profilo e i propri contatti. È quasi letteralmente “inserita” nella mente accresciuta.

Possiamo spingerci fino a sostenere che la generazione “always on” giunge a vedere il mondo in modo molto diverso dalle generazioni immediatamente precedenti? C'è un gap generazionale già tra genitori e figli?
Certo che sì, per questa generazione il mondo è sia globale sia geo-localizzato, allo stesso tempo. Ovunque si trovino, sono potenzialmente in contatto con il mondo intero. Come ha già osservato Doug Rushkoff, al giorno d'oggi i bambini non si limitano a guardare la televisione, come facevano i loro genitori, interagiscono con essa. Sono multitasking, possono gestire diverse “finestre” in una volta. La loro intelligenza si affida alla connessione con ipertesti colmi di riferimenti e tag, ipertesti che hanno gli stessi utenti al loro centro. I giovani sono “amici” già a tre o quattro gradi di separazione, mentre i loro nonni avevano bisogno almeno di stringere la mano a una persona più di una volta per considerare quella persona un “amico”.

Ma è anche la generazione “dalla bassa soglia di attenzione”, quindi? In altre parole, è preferibile che i contenuti – libri, media, notizie, film – siano brevi, veloci, facilmente fruibili come un SMS o un tweet?
Probabilmente sì, ma non è detto che questa sia una cosa negativa. Si sente e si legge molto oggigiorno in merito alle ripercussioni dei nuovi media e ai loro presunti effetti deleteri sulle menti dei nativi digitali.

Nicholas Carr si chiede con ansia se “Google ci renda stupidi”, se Internet “alteri il nostro modo di pensare rendendoci meno capaci di digerire ampie e complesse quantità di informazioni, come libri o articoli di riviste”. Dal mio punto di vista, è meglio chiedersi se l'elaborata articolazione dei messaggi non contrasti con l'inevitabile accelerazione della vita e della cultura introdotta dall'elettricità, a partire dall'avvento del telegrafo. I ritmi di vita e di apprendimento sono stati completamente alterati dalla rapida successione di enormi cambiamenti tecnologici, che includono il telefono, la radio, la televisione, i personal computer, Internet, i telefoni cellulari e le tecnologie mobili in generale.

L'attenzione a breve termine non vuol dire necessariamente attenzione debole, può significare attenzione veloce. Una cosa di cui i critici della cultura dello schermo non riescono a rendersi conto è che elaborare un'immagine richiede meno tempo rispetto all'elaborazione di anche solo una dozzina, figuriamoci un centinaio, di parole. L'attenzione a breve termine è quello che ci vuole per far fronte a richieste rapide, ma non preclude un'attività di pensiero più profonda. Quando hai davvero bisogno di approfondire e concentrarti, puoi farlo. Non è più una questione di immagazzinare informazioni. Perché preoccuparsene, dato che è tutto intorno a te? È più che mai una questione di contesto e di interesse. I ragazzini pensano di non amare lo studio perché il sistema educativo fallisce sistematicamente nel coinvolgerli. E questo li manda fuori di testa.

Da parte sua, come non citare le geremiadi di Sherry Turkle a proposito del fatto che le tecnologie della comunicazione stanno isolando le persone, limitando le reali interazioni umane, in una “realtà virtuale che non è altro che una brutta imitazione del mondo vero”. Perché sento una strana sensazione di “déjà vu”? Perché ho già sentito tutto ciò a proposito della televisione e non si è rivelato vero, quindi ho la tendenza a dubitare. In realtà, la mia esperienza è che, almeno per quanto riguarda i miei studenti, sì, è vero, loro non leggono molto, ma di certo sanno come visionare e esplorare Internet, trovare contenuti pertinenti e focalizzarsi sul materiale da loro selezionato. Stupido è chi non usa Google. Per quanto riguarda l'isolamento, possiamo rispondere a Turkle che Twitter, le email, i social media, piuttosto che isolarci in camera nostra, davvero ci mettono continuamente in contatto gli uni con gli altri.

Abbiamo menzionato Second Life, o The Sims, come esempi del modo in cui processi che tradizionalmente abbiamo ritenuto accadere esclusivamente dentro alle nostre teste – l'immaginazione, per esempio – stiano emigrando verso i computer e gli schermi fuori dalle nostre teste. Nel saggio questo fenomeno è definito 'Immaginario Oggettivo' – può chiarircelo meglio?
Pensiamo a tutte le fonti intellettuali che abbiamo imparato a elaborare nell'intimo isolamento della nostra mente, come la pianificazione, la selezione, la classificazione, il ricordo, la progettazione, il calcolo (già, prima dei calcolatori elettronici, dovevamo imparare le tabelline a memoria). Nella maggior parte dei casi, se non in tutti, queste operazioni cognitive vengono assunte, espanse, connesse, verificate e distribuite online attraverso schermi che “oggettivano” le elaborazioni stesse, sottoponendole alla nostra valutazione per essere approvate. L'immaginazione è la prossima.

Quello che sta cominciando a succedere è l'opposto di ciò che è accaduto al tempo in cui Cervantes scrisse Don Chisciotte. È un'opera di riferimento per le rivoluzioni cognitive, perché sono la sua eccessiva dipendenza dal romanzo cavalleresco medievale e la sua nostalgia per i tempi eroici a plasmare la sua mente. È tutto nella sua mente, ovvio, perché è nella sua mente che egli elabora le parole delle storie che legge. La realtà virtuale, per lui, è nella sua testa, non sullo schermo.

Ciò che mi intriga di Second Life e di altri ambienti virtuali 3-D è il fatto che emulano i nostri processi immaginativi ma all'esterno delle nostre teste, su uno schermo. Questa esternalizzazione di per sé è già un fenomeno cognitivo sorprendente, proietta l'universo di finzione davanti ai nostri occhi, invece che dietro. Ma ancora più interessante è il fatto che queste simulazioni possano essere condivise con altri. La ragione per cui chiamo questo fenomeno “Immaginario Oggettivo” è che occupa una posizione ibrida tra il teatro (che può essere simulato ma non è direttamente influenzato dal modo in cui noi lo interpretiamo) e il pensiero partecipativo, quello in cui contribuiamo attivamente alla realizzazione nelle nostre menti di figure, luoghi, suoni e altre caratteristiche sensoriali evocate dai racconti, semplicemente leggendoli.

Ne La mente accresciuta i tag e le keywords sono descritte come “le unità minime, i monomeri dell’ambiente cognitivo condiviso”. I tag, poi, sono definiti come “l’anima di internet” – come è arrivato a questa definizione?
Sempre restando in linea con l'approccio della Toronto School of Communications, ho provato a identificare i bias di internet come medium. Il principio operativo base di Internet è la commutazione in pacchetti per la trasmissione delle informazioni nel giusto ordine al posto giusto. La precisione dell'intero sistema è dovuta a un modo univoco di dividere le informazioni in brevi stringhe (o pacchetti) che vengono indirizzate nella sequenza, ognuna con la propria specifica etichetta e la propria posizione, per ricostruire il messaggio ovunque sia richiesto. Di base, il tag è proprio questo. Senza la possibilità di isolare, identificare e connettere ogni pacchetto non ci sarebbe né Internet né il World Wide Web. Taggare rende ogni informazione disponibile a richiesta, è quindi il nucleo, l'anima di internet. I tag consentono di connettere i mezzi analogici con quelli digitali, e di interconnettere tutto con tutto il resto da un capo della trasmissione all'altro, on demand. Oggi siamo al centro di quella che io chiamo l'era del tag.

Per concludere: che definizione potrebbe dare alla locuzione “polvere intelligente”?
Si tratta di un'espressione talmente recente che i vocabolari ancora non le hanno fatto posto; la lingua inglese è poi incerta tra “smart dust” e “intelligent dust”, con il primo favorito da Wikipedia: “La smart dust è un ipotetico sistema costituito da microscopici sistemi elettromeccanici (MEMS), come sensori, robot e altri device, che possono rilevare, ad esempio, luce, temperatura, vibrazioni, campi magnetici e reazioni chimiche; sono spesso interconnessi tramite wireless e sono distribuiti lungo certe aree per portare a termine dei compiti, in genere di rilevamento”.

Wikipedia fornisce anche esempi di applicazioni: “Un tipico scenario di applicazione è il posizionamento di un centinaio di questi sensori attorno a un edificio o a un ospedale per monitorare temperatura e umidità o per tracciare i movimenti dei pazienti; un'ulteriore applicazione potrebbe essere il loro sfruttamento come fonte di informazione per i soccorsi nei casi di disastri naturali, come per esempio i terremoti. In ambito militare, la smartdust potrebbe essere usata come sensore remoto per tracciare il movimento di unità nemiche o come rilevatore di gas velenoso o radioattività”.

Il mio interesse verso questo nuovo sviluppo tecnologico è dovuto al fatto che la smart dust impatta la giuntura tra il digitale e le nanotecnologie, oltre a ricongiungersi con il concetto di “cloud computing”, come è tipico delle fasi di rapida e intensa maturazione di internet, alla pari con l'invenzione e lo sviluppo dei motori di ricerca, dei blog, di Twitter: tutte considerevoli risorse della mente accresciuta.

*(traduzione di Daria Bernardoni) 

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